15° CATECHESI
I. L’esame particolare di coscienza
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I classici della spiritualità cristiana, dai monaci del deserto nei primi secoli della nostra era, ma specialmente a partire da Ignazio di Loyola nel XVI secolo, hanno considerato come metodo privilegiato per educare la volontà, cioè per acquisire virtù, estirpare i vizi e correggere i difetti, il lavoro giornaliero su di un punto ben determinato della nostra vita spirituale o affettiva.
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Importanza
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Lo considero il metodo personale più utile per combattere non solo i difetti comuni, ma anche i vizi radicati e i problemi che danno assuefazione (in quest’ultimo caso è essenziale che allo stesso tempo si realizzino le terapie necessarie e adeguate). Mi sembra che questo metodo, semplice ma esigente, sia molto conveniente per chi voglia avanzare nella vita spirituale e si renda indispensabile per chi debba risolvere conflitti affettivi. Ogni direttore spirituale – così come il terapeuta – è libero di scegliere i propri metodi di lavoro e a molti questo non piace (“ad ogni maestrino il suo libricino”, recita il detto). Rispettando la libertà di scelta di ognuno, propongo questo strumento che ha già dato eccellenti risultati spirituali e psicologici durante i secoli[1]. Lo stesso sant’Ignazio, suo grande sistematizzatore e divulgatore, lo praticava attentamente, come riferisce P. Laínez a P. Polanco: “Ha tanta attenzione riguardo la propria coscienza che ogni giorno confronta settimana con settimana, mese con mese, giorno con giorno; e cerca ogni giorno di trarre profitto”[2]. P. Narciso Irala cita le parole del dottor Schleich, protestante, professore della Facoltà di Medicina di Berlino: “Affermo con sicura convinzione – dichiara – che se si adottassero queste norme e questi esercizi, potremmo fin d’ora trasformare manicomi, prigioni e cliniche psichiatriche ed impedire che vi entrino i due terzi di coloro che vi sono ricoverati”[3].
Questo metodo è allo stesso tempo misuratore della propria volontà (volontimetro) e generatore di volontà (voluntigero)[4]; focalizza l’attenzione e le energie della persona in un punto preciso, il che aumenta la capacità della volontà di realizzare gli atti che dovranno culminare nell’obiettivo proposto.
È un peccato che siano così poche le persone che ricorrono a questo metodo, vero bastone per camminare nella formazione della volontà, nello sradicamento effettivo dei difetti e nella crescita della virtù. Ed è ancora peggiore la triste realtà che osserviamo negli innumerevoli laici cattolici, religiosi e sacerdoti, i quali, conoscendolo ed essendo consapevoli della sua importanza e necessità, non lo curano, lo realizzano con sorprendente indolenza e infine lo abbandonano… e poi si meravigliano di continuare a radicare vizi e difetti o semplicemente di vivere stagnanti nel cammino spirituale[5]!
Questo si deve, in parte, all’abbandono generale della vita spirituale (da parte dei fedeli e dei pastori), in parte a pregiudizi contro qualsiasi progetto spirituale serio (e indubbiamente questo è un elemento essenziale per un progetto spirituale serio) e in parte, infine, all’ignoranza della sua natura e del suo fine. Quando s’ignora questo punto, come faceva notare Casanovas, l’esame “si converte in un meccanismo complicato e fastidioso, a mo’ di penitenza spirituale”[6].
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In cosa consiste
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L’esame è allo stesso tempo uno “stato” e “una operazione dello spirito”. È uno stato dello spirito nel senso che è “una disposizione generale dell’uomo che lo fa stare sempre attento e vivamente interessato a conoscere, discernere e perfezionare, per quanto gli sia possibile, le reazioni prodotte nella sua anima”[7]. Ho qui il primo vantaggio per una persona con difetti radicati o disordini affettivi: la sua attitudine diventa interesse a cambiare, a migliorare e a vivere coscientemente la sua vita e i suoi moti interiori (cosa che non è possibile quando la persona è affondata nel pozzo degli affetti senza giudizio). Ed è anche un’operazione che “richiede le sue ore determinate e ha leggi precise per la sua esecuzione. L’operazione senza lo spirito termina in una routine noiosa e sterile; lo spirito senza l’operazione manca di efficacia pratica”[8].
Continua a fare notare Casanovas che “ci sono due classi di persone che sbagliano nella spiegazione dell’esame di sant’Ignazio; quelli che si preoccupano solo di moltiplicare i particolari pratici esigendo il loro compimento in un modo quasi superstizioso, e quelli che lo disprezzano, considerandolo un sistema di contabilità, inappropriato per i temi spirituali e snervante per i cuori. È allo stesso modo superficiale ed ingiusta la posizione degli uni come quella degli altri”[9].
Insomma: l’esame “si propone di conservare lo spirito sveglio ed attivo in tutte le ore del giorno, affinché l’uomo raggiunga l’obiettivo che si è proposto, nella maniera più seria ed efficace. Questo è il primo e principale aspetto, perché è come la vita spirituale dell’anima. Quanto viene dopo di questo, è secondario nonostante abbia molta importanza; e lo deve guardare e trattare come secondario chi vuole dare alle cose il loro giusto valore, senza peccare nè per eccesso nè per difetto”[10].
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Modo di praticarlo
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Il miglior modo di praticare questo esame è quello che spiega sant’Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi spirituali[11]. Il santo distribuiva il lavoro in tre momenti fondamentali:
1° Alla mattina, dopo essersi svegliati, tra le prime cose da fare, si deve determinare con precisione l’obiettivo del lavoro, cioè il proposito o progetto personale spirituale che si ha tra le mani (quello che si vuole correggere, sradicare o acquisire, come un difetto, una virtù, un’abitudine o una consuetudine). è una presa di coscienza. Inoltre, ogni cristiano che sa che l’esito del suo lavoro dipende dall’aiuto di Dio, deve anche chiedere in questo primo momento il suo aiuto per realizzare bene il lavoro. A chi costa molto questo passo può risultare molto utile scrivere una piccola preghiera che menzioni ciò che vuole raggiungere e i motivi. Per esempio, chi volesse lavorare sull’umiltà, potrebbe scrivere qualcosa come:
“Signore mio, Gesù Cristo, ti chiedo luce e grazia per fare in questo giorno tutti gli sforzi per guadagnare e crescere nella virtù dell’umiltà. Specialmente oggi voglio essere umile praticando l’umiltà nelle parole, tanto in quello che dico su di me, quanto in quelle con cui mi riferisco al prossimo. Voglio vivere l’umiltà ad imitazione del tuo cuore umilissimo e mite.Ti chiedo questa grazia per intercessione della tua santa ed umile Madre”.
Si noti che in questa possibile preghiera non solo ho indicato la virtù che cerco di acquistare, ma anche l’atto concreto in cui voglio incarnarla in questo preciso giorno. Più avanti vedremo l’importanza e il modo di determinare i possibili atti concreti che dobbiamo praticare uno alla volta.
2° A metà giornata (prima o dopo pranzo più o meno, o in ogni caso quando risulti più comodo) si devono fare due cose:
a) Ricordare quante volte si è mancato nel proposito prefissato (o se si sono compiuti gli atti positivi proposti). A tal fine, risulta qualche volta conveniente ripassare ciò che si è fatto durante la mattina ora per ora o di luogo in luogo, ed annotarlo in qualche libretto o agenda. Alcuni si lamentano della “materialità” di quest’azione e preferiscono non scendere così nel particolare, limitandosi ad affidare questo lavoro alla memoria; ma dimenticano che la finalità di questo sforzo è vincere la debolezza e la pigrizia; per questo consiglio che si faccia come viene indicato qui, tranne da parte di chi abbia malattie affettive o difetti molto radicati. D’altra parte, conviene non solo osservare e annotare quante volte si è mancato, ma i motivi per i quali ciò è avvenuto, per correggersi e forgiare la prudenza d’ora in poi.
b) Inoltre si deve tornare a rinnovare il proposito per ciò che resta del giorno.
Per ogni giorno ci sono due linee, nella prima si annotano (con qualche segno) le mancanze (o, al contrario, il compimento degli atti proposti) della mattina, nella seconda quelle della sera.
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3° Infine, al termine del giorno, si deve tornare a fare l’esame, ripassando questa volta le mancanze che si sono compiute da mezzogiorno fino a quel momento. Di nuovo si deve annotare questo nello spazio corrispondente.
è molto conveniente, insegna lo stesso sant’Ignazio, che quando una persona prende coscienza di aver mancato al suo proposito, faccia qualche gesto esterno, del quale solo egli conosca il significato (come mettere la mano al petto, per esempio) in modo tale che manifesti il suo dispiacere per essere caduto. Lo stesso vale per quando realizza qualcuno degli atti che si era proposto di fare: deve farlo prendendo coscienza di quello che fa. Fa notare Casanovas che questo prendere coscienza dell’atto stesso con cui si cade in un difetto (che ci siamo proposti evitare) o si pratica una virtù (che ci siamo proposti di realizzare) ha un’importanza capitale: “dopo la detta previsione [cioè prevedere quale atto compiremo o eviteremo] non c’è cosa più importante di rendersi conto delle proprie azioni; allo stesso modo non c’è cosa più fatale che l’incoscienza delle cadute o la routine nell’agire (...)
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Questa attenzione alle cadute deve essere interamente cosciente e deve manifestarsi fino ad un’azione esterna, portandosi, per esempio, la mano al petto. Questo gesto esterno denota il pentimento, se si è caduti nella mancanza, ed è inoltre un rinnovamento del proposito di non cadere. Non è possibile che si abitui alle cadute chi si rende conto di ogni scivolone, si pente all’istante e dalla stessa caduta prende spunto per rinnovare il suo spirito. Se questo rinnovamento si fa come conviene, talvolta lo stesso scivolone serve da stimolo e spinge a fare un salto avanti, come è solito capitare con gli scivoloni materiali”[12]. Questo non è molto lontano da coloro che lottano contro problemi gravi e radicati e che chiamano sani rituali[13].
Non ignoro che alcuni direttori spirituali (spesso maldestri), considerano questo tipo di lavoro come una meccanizzazione della vita spirituale; senza dubbio perfino i buoni psicologi lo considererebbero per lo meno un metodo efficace. Non c’è dubbio che questo, se mal fatto, può far diventare il lavoro spirituale o quello psicologico un’inutile automatizzazione; per questo abbiamo avvertito che è necessario dargli uno spirito; perché la lettera senza lo spirito uccide (cf. 2Cor 3,6).
Inoltre, nell’esame della sera, la persona dovrà osservare se ha migliorato la propria condotta rispetto alla mattina; ed ogni giorno (o almeno qualche volta alla settimana) dovrà comparare il proprio lavoro con il giorno o i giorni precedenti, guardando se è migliorato o peggiorato, cercando i motivi (se è migliorato per continuare a lavorare su questa linea; se è peggiorato per correggere quelle cose che lo fanno retrocedere nel lavoro); e di tanto in tanto comparare una settimana con le precedenti, guardando se si avvicina o si allontana dai suoi obiettivi.
Seguendo questo metodo con un lavoro costante, in pochi mesi si possono correggere difetti profondamente radicati. Ma c’è bisogno di perseveranza e tenacia, e di sufficiente umiltà per tornare a cominciare quando si prende coscienza di essere caduti.
Gli effetti di questo esame sono tanto importanti per correggersi che sono convinto che questo tipo di lavoro debba essere inserito anche nel trattamento delle persone con assuefazioni e disturbi affettivi.
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Contenuto: su cosa esaminarsi?
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In quanto al contenuto dell’esame deve trattarsi sempre di qualcosa di molto preciso e determinato e sufficientemente conosciuto a chi compie questo esercizio.
Innanzitutto, deve essere qualcosa di ben determinato. I principali errori nel lavoro della volontà (ed anche in altri campi) derivano dal proporsi piani molto generali (per esempio, “voler essere umile”, o “voler essere generoso”). Sebbene l’umiltà o la generosità siano virtù concrete, si tratta ancora di propositi generali; ma affrontando genericamente le cose non si può avanzare nel cammino spirituale. Per questo il proposito particolare deve essere sempre qualcosa di concreto e tanto più è particolareggiato, meglio è. Se, per esempio, si vuole crescere nell’umiltà, si dovranno puntualizzare i propositi: quali atti concreti d’umiltà (negli sguardi, nelle parole, nei gesti?), o rispetto a chi (superiori, sudditi, coniuge, amici, genitori, o in quali momenti del giorno, ecc). Una volta che, dopo un periodo di lavoro, si sia conseguita una certa abitudine a questi atti, si può passare a nuovi atti di umiltà. In questo campo vale lo stesso che negli altri: si devono praticare con disinvoltura le piccole cose per poter, in seguito, governare le grandi.
Secondo: come scegliere la materia sulla quale si deve lavorare? Riporto un testo del già citato Casanovas: “Generalmente gli autori ascetici sottolineano la necessità che c’è di scegliere abilmente il difetto o la virtù particolare sulla quale si deve fare l’esame particolare; e per assicurare questo punto, stabiliscono la teoria della passione dominante[14], affermando che per primo si deve attaccare il vizio principale, poi i secondari ed infine si deve esercitare una virtù. Tutto questo è molto appropriato, mirato come teoria fondata nel valore dei vizi e delle virtù, ma se si segue il fine al quale si ordina l’esame particolare secondo lo spirito di sant’Ignazio, talvolta conviene seguire un criterio diverso. Essendo il fine dell’esame particolare mantenere sempre vivo e molto attivo il desiderio della santità, si deve precisare che ciò che soddisfa il tipo di persona e le circostanze nelle quali si trova, debba essere più efficace per accendere questo desiderio, anche se questo rompe i modelli dell’ordine, obiettivo col quale diamo valore ai vizi o alle virtù.
È tanto grande la diversità nella quale si trovano gli spiriti rispetto ad uno stesso grado di perfezione o imperfezione, e sono tanto varie le disposizioni nelle quali uno stesso spirito si può trovare, che si rende molto difficile decretare a priori quello che è di maggior profitto. Non perdiamo mai di vista, che la santità è una vita e non una teoria, per quanto sia ben pensata; e che l’esame particolare non è un fine in base al quale si deve plasmare la vita dell’anima, ma un mezzo per conservarla e perfezionarla”[15]. Pertanto, ciò su cui una persona deve esaminarsi deve essere determinato secondo le necessità di questa persona concreta “qui e adesso”. Per tal motivo, per esempio, una persona dominata da un vizio come la lussuria o l’alcool, nonostante la sua passione o vizio dominante siano la lussuria o le bevande, talvolta si esamini, perlomeno in qualche momento della propria vita, sulla fiducia e abbandono in Dio (dato che, senza questi atteggiamenti è impossibile riuscire a recuperare), o sull’umiltà (quando c’è qualche complesso d’inferiorità alla radice), o su altri atti diversi quando si prova ad usare l’esame principalmente al fine di rafforzare o elevare la forza di volontà.
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Lavoro previo
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Sostengo che non si può acquisire una virtù o combattere un vizio o difetto se non si conosce bene il terreno sul quale si va a lavorare. Un buon militare studia meticolosamente il proprio esercito, il suo nemico ed il terreno sul quale si svolgerà la battaglia; se non fa così, ha la sconfitta assicurata. Nel nostro caso succede qualcosa di simile; se una persona vuole acquisire una virtù, deve diventare, in un certo senso, “specialista” di essa. Quando qualcuno mi dice, per esempio, “io credo di dover lavorare sulla mansuetudine perché il mio problema principale è l’ira”, sono solito rispondergli: “mi sembra una buona idea; dimmi quindici atti che metterai in pratica per raggiungere questo obiettivo”. La maggior parte rimangono perplessi; al massimo vengono loro in mente una o due azioni; questo significa che di questa virtù sanno poco e niente; ma in questo modo non è possibile un lavoro serio, perché non potranno rendersi conto delle opportunità che gli si presentano per praticare questa virtù se non sanno bene cosa sia questa virtù e le diverse situazioni nelle quali opera; lo stesso si dica dei vizi. Chi vuol lavorare sul serio, deve (secondo le proprie possibilità e capacità) studiare l’argomento.
Per questo, per un lavoro serio, raccomando, prima di tutto di leggere quello che dicono i libri classici di spiritualità o morale sulla virtù che si pretende acquisire o sul vizio che si vuole sradicare (per esempio, qualche opera di Antonio Royo Marín, Tanquerey, Garrigou-Lagrange, Merkelbach, Prümmer, ecc.).
Una volta fatto questo, si sarà in condizione di fare una lista, il più esauriente possibile, di tutti gli atti che uno veda legati in modo diretto o indiretto alla virtù o al vizio che si vuole affrontare, così come si presenta nella vita quotidiana della persona interessata. Una lista di quindici o venti atti è ottima. Qui offro, a mo’ di esempio, alcuni schemi d’orientamento sulla castità (ed il suo contrario: la lussuria), sull’accidia (ed il suo contrario: la meticolosità) e sull’umiltà (ed il suo contrario: l’orgoglio). Il modo nel quale sono strutturati può suggerire altri possibili schemi:
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Il lavoro propriamente detto
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Gli schemi anteriori sono solo suggerimenti. Ogni persona può aggiungere o togliere elementi o fare un piano analogo per altre virtù o altri difetti, come si è precedentemente fatto notare. Come si può vedere, per elaborare uno schema su altre virtù o su altri vizi, basta fare una lista degli elementi principali di questa virtù (natura, causa, modo di acquisirla, atti principali, atti secondari, effetti, occasioni per praticarla, vizi che si oppongono...), determinando, in seguito, diversi atti concreti per alimentare quest’aspetto o sradicarlo. Gli esempi detti in precedenza parlano da soli.
Con queste idee davanti, la persona che deve lavorare su questo atteggiamento, dovrà esaminarsi solamente su uno di questi punti durante il tempo che sia necessario perché rimanga radicato; dopo il ciò, passerà ad un altro. Non deve lavorare su vari punti alla volta, perché questo sarebbe il contrario di quello che cerca di fare l’esame particolare (il cui obiettivo è concentrare l’energia della volontà e l’attenzione dell’intelligenza su di un solo punto focale). Si capisce anche che, quando si passa ad esaminare un nuovo aspetto o atto, si deve mantener vivo l’esercizio di quegli atti che si sono già acquisiti. Si deve procedere guadagnando terreno in ogni esame. In questo modo, in poco tempo, una persona può cambiare da apatica ad energica e da viziosa a virtuosa.
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Effetti
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Il lavoro realizzato in questo modo, non solo conquista o fa crescere la virtù (o vince il difetto) sulla quale si è focalizzata l’attenzione, ma allo stesso tempo ha anche un effetto importante: rafforza la stessa volontà che, con ogni atto fermo ed energico, si rinvigorisce e consolida.
Così, oltre a questo beneficio sulla volontà, ne produce un altro più importante (che è, secondo alcuni autori, il suo frutto principale): conserva vivo e vegeto l’interesse per la propria santità e perfezione.
Soprattutto dobbiamo riconoscere una grande verità: con grandissima frequenza (per non dire “quasi sempre”), senza un serio esame particolare, tutti i buoni desideri e tentativi, si condannano, presto o tardi, al fallimento totale ed il cristiano finisce imprigionato nella tiepidezza e mediocrità. Per questa ragione, non dargli l’importanza che merita può essere un segno di stoltezza.
II. Il difetto dominante
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Menzionando l’oggetto sul quale si deve realizzare l’esame particolare, abbiamo detto, seguendo P. Casanovas, che non sempre è necessario esaminarsi sul difetto dominante. Per essere più esatti dobbiamo dire che, sebbene ci siano circostanze che possano richiedere in alcuni casi un lavoro più urgente su di un altro punto della nostra personalità, gran parte del nostro impegno consisterá nello sforzo di sradicare il nostro difetto dominante e presto o tardi dovremo occuparcene seriamente.
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L’ignoranza del tema nelle persone buone
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Nonostante ciò che hanno scritto a riguardo gli autori classici di spiritualità, è notevole l’ignoranza su questa dottrina. O, per parlare con maggior precisione, dobbiamo riconoscere che una notevole quantità di buoni cristiani che conoscono ciò di cui si parla quando si menziona il difetto dominante ignorano, tuttavia, quale domina loro stessi. Lo dimostra la constatazione che fa P. Amadeo Cencini sulle persone consacrate, citando uno studio di L. M. Rulla, che afferma: “All’entrata in teologia o al noviziato, c’era l’86% di chierici che ignorava il proprio conflitto centrale (ciò che un tempo si chiamava difetto dominante), dopo quattro anni di formazione c’era ancora l’83% che ignorava il punto debole della propria persona (nei religiosi all’inizio del noviziato erano l’87% quelli che non conoscevano la propria inconsistenza centrale, e l’82% dopo quattro anni)”[16]. E qui si sta parlando di persone che, in teoria, hanno consacrato la propria vita alla ricerca della perfezione spirituale!
Osserviamo che il linguaggio moderno ha smesso di usare, purtroppo, la precisa espressione “difetto dominante”, in parte per l’invasione della psicologia nel terreno propriamente spirituale. Nella citazione che abbiamo trascritto leggiamo “conflitto centrale”, “lato debole”, “inconsistenza centrale”..., termini che senza dubbio descrivono la realtà di cui parliamo, ma che mancano della forza dell’aggettivo che le assegnava la tradizione: dominante. L’usanza classica non ha perso, tuttavia, il suo vigore ed attualità. Oltre all’espressione “difetto dominante”, altri autori hanno usato ed usano formule equivalenti, come: “disposizione dominante”, “passione dominante”, “vizio dominante”, ecc.
La sua natura
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Cos’è il difetto dominante? In qualche modo si può dire, con un’espressione di Fulton Sheen, che è “ciò che c’è di peggiore in noi”[17]. È quello dal quale nascono tutte o la maggioranza delle mancanze che una persona commette, ed è il maggiore ostacolo che si oppone al progresso spirituale. È il difetto che ci fa commettere più peccati, soprattutto peccati di affetto; quello che in ognuno sveglia i desideri più violenti e tenaci; quello che ci porta, sia ad esagerate allegrie, sia a profonde tristezze; ciò che più ci rimprovera la grazia e quello che conserva la relazione col naturale modo di pensare, di sentire e di operare di ognuno; quello che costituisce il fondo torbido del nostro carattere e conserva un’intima relazione col nostro modo di essere individuale. Ci sono temperamenti naturalmente inclinati alla mollezza, all’indolenza, alla pigrizia, alla gola ed alla sensibilità; altri alla superbia, ecc[18].
Garrigou-Lagrange lo definisce come “il nostro nemico domestico, all’interno di noi stessi, poichè può, se prende spazio, giungere a devastare totalmente l’opera della grazia, ossia la vita interiore... Il difetto è ancor più pericoloso perché spesso compromette la nostra buona qualità principale, la quale è una felice inclinazione della nostra natura che dovrebbe essere sviluppata e poi nobilitata dalla grazia... In ogni individuo vi è del bianco e del nero, vi è un difetto dominante, ed anche una buona qualità naturale... Dobbiamo quindi vigilare in modo tutto particolare affinchè il difetto dominante non venga a soffocare la nostra principale buona qualità naturale e la nostra attrattiva speciale della grazia. Altrimenti la nostra anima sarà simile a un campo di grano invaso dal loglio o dalla zizzania di cui parla il Vangelo ... è spesso come un verme che mangia dentro un bel frutto ... Nella cittadella della nostra vita interiore, difesa dalle varie virtù, il difetto dominante è come il punto debole non difeso nè dalle virtù teologali nè da quelle morali.
Il nemico delle anime cerca appunto in ciascuno di noi il punto debole, facilmente vulnerabile, e lo trova agevolmente”[19].
Il difetto dominante è più legato in ogni persona al sostrato temperamentale che ai vizi che si sono acquisiti lungo la vita, inclusi quelli che possono essere degenerati in qualche assuefazione. Per questo non si deve confondere il difetto dominante con altre abitudini che possono essere, per le circostanze, più gravi dello stesso difetto e che forse esigono in alcuni casi che vi si lavori con più urgenza che con lo stesso difetto. La persona può avere vizi obbiettivamente più gravi che il difetto dominante che ha dato loro origine.
Il difetto dominante coincide, se non mi sbaglio, col modo proprio che assume in ogni persona il fomes peccati, la labilità morale o tendenza a scivolare nel terreno morale, eredità del peccato originale, il quale è legato alla diversa conformazione temperamentale[20]. Da qui viene l’importanza di conoscere la teoria dei temperamenti, con le loro diverse qualità positive e negative. Sebbene nessuna delle tipologie temperamentali – delle quali parleremo nell’ultima parte – si abbia in un stato puro e le forme di concretizzarsi siano realmente numerose, possono stabilirsi linee maestre e difetti che possiamo a loro volta chiamare maestri: l’ira esplosiva ed il cattivo carattere del collerico, la superficialità ed instabilità del sanguigno, la tristezza e la tendenza al rancore dell’appassionato, la pigrizia e l’indifferenza del linfatico, ecc.
Tanto importante è il difetto dominante che anche nei casi in cui la carità spinge a lavorare primariamente su un altro vizio che forse sta pregiudicando il prossimo o i nostri doveri di stato, non dobbiamo dimenticare che ogni vizio porta in qualche modo il segno del difetto dominante. Non sono uguali le mancanze di carità in chi ha un sostrato collerico e in chi è rancoroso o superficiale; neanche sono identiche la lussuria dell’impulsivo e quella dell’egoista. L’orgoglio ha tracce di dispotismo in un collerico e di rancore in un malinconico… Se questo non si prende in considerazione, gli esami di coscienza saranno sempre astratti ed impersonali; e, pertanto, inefficaci.
La necessità di combatterlo
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Sant’Alfonso dice: “Soprattutto dobbiamo esaminare qual è la nostra passione dominante. Chi la vince, ha vinto tutto, e chi si lascia vincere da questa è perso... Alcuni... si astengono da certi difetti di minor conto e si lasciano vincere dalla passione dominante. Se non la sacrificano completamente in ogni cosa, mai arriveranno al porto della salvezza”[21]. E parlando degli “effetti funesti della passione dominante”, aggiunge: “rende moralmente impossibile la salvezza, acceca la propria vittima e la fa precipitare in tutti gli eccessi. Se non uccidiamo... la passione dominante, è impossibile che ci salviamo. Quando la passione domina l’uomo, comincia con l’accecarlo, in modo che già non possa vedere il precipizio”[22].
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Mezzi per conoscerlo
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è notevole la quantità di buone persone che dopo molti anni di vita spirituale continuano a non individuare quale sia il proprio difetto dominante.
Per scoprire la passione che ci domina, sono necessarie due disposizioni previe.
La prima: chiedere a Dio i mezzi necessari; cioè: la luce soprannaturale per conoscere adeguatamente il nostro mondo interiore ed il sincero desiderio di lavorare con serietà nella nostra propria riforma di vita. Quest’ultimo ha un’importanza vitale; perché capita spesso che siamo disposti a conoscerci, ma non tanto a cambiare; e davanti a tali disposizioni non risulta strano che Dio non conceda neanche le luci, perché non illumina la strada di chi non ha seria intenzione di camminare.
La seconda: dobbiamo cercare il coraggio di chiamare le cose “col loro giusto e brutto nome una volta che si scopre, al contrario denomineremo la nostra mancanza di vigore come “complesso d’inferiorità”, ed il nostro disordinato amore a ciò che è carnale come “una liberazione della libidine”. Giuda perse la possibilità di salvarsi perché mai chiamò la sua avarizia col suo vero nome, ma la mascherò come amore ai poveri”[23]. Questa osservazione non manca d’importanza, giacché sono pochi quelli decisi ad accettare di avere un fondo profondamente egoista, o sensuale, o avido, o rancoroso. Questo timore di affrontare la verità nella sua nudità è uno degli ostacoli più importanti nella scoperta della nostra passione dominante.
Tra i mezzi per far affiorare davanti alla nostra coscienza il nostro difetto dominante, possiamo segnalare i seguenti.
Prima di tutto, come fa notare Mons. Fulton Sheen, può esserci di aiuto osservare quale difetto ci irrita di più quando ne siamo accusati: il traditore va in collera quando è accusato per la prima volta di essere sleale alla sua patria. Serve anche considerare quale mancanza condanniamo con più frequenza o veemenza nel prossimo, perché, per strani giri della nostra psicologia, questa è solita essere la stessa che colpisce anche noi; così Giuda accusò Nostro Signore di non amare sufficientemente i poveri. Forse questo si spiega perché questa mancanza, osservata negli altri, sembrerebbe accusare noi stessi.
Altro mezzo che ci permette di scoprire il nostro difetto è il modo nel quale gli altri si comportano con noi. Questo ha a che vedere con la legge fisica per la quale ogni azione produce una reazione contraria ed uguale; ciò è valido anche sul piano psicologico. A volte gli altri diffidano di noi, perché noi prima abbiamo diffidato di loro. Se trattiamo male il prossimo, è probabile che il prossimo ci tratti male. Anche se questo non si può stabilire come principio generale, perché a volte capita che ci trattino male senza che noi abbiamo operato in egual modo, come succede, per esempio, al santo che viene perseguitato. Ma con maggior frequenza possiamo confidare che i comportamenti degli altri verso di noi facciano da specchio alle nostre disposizioni interiori.
Un ulteriore mezzo consiste nel domandarci dove vadano le nostre preoccupazioni ordinarie, cosa sia quello che pensiamo e desideriamo; quale sia l’origine abituale dei nostri peccati; quale sia generalmente la causa delle nostre tristezze ed allegrie. E vale anche la pena di chiederci cosa pensa di questo il nostro direttore spirituale.
Ugualmente si può osservare che questo difetto è solito essere in relazione con le tentazioni che con maggior frequenza il nemico suscita nella nostra anima, perché questo, come insegna sant’Ignazio, ci attacca nel nostro punto più debole.
Infine, si può anche scoprire tenendo in conto che, nei momenti di vero fervore, le ispirazioni dello Spirito Santo accorrono sollecite a chiederci sacrifici nella materia che ci dà più difficoltà morale.
Modo di combatterlo
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A nulla ci serve conoscere il nostro difetto dominante se non ci impegniamo a sradicarlo. E questo non è possibile a meno che non lottiamo contro di esso in modo permanente. Il lavoro superficiale, o realizzato per poco tempo, o senza centrare il problema, lascia intatto o questo difetto, od almeno le sue radici. Ed in questo modo, come la Fenice, rinasce una ed un’altra volta dalle sue ceneri, le quali non sono tanto ceneri come sembrano.
I mezzi che la spiritualità classica ha suggerito per questo lavoro sono ben conosciuti.
Il primo è la preghiera: senza pregare non possiamo arrivare a nulla nella vita spirituale; ancor meno a correggere o trasformare il fondo oscuro della nostra personalità.
Il cuore del lavoro ha le radici nella fiducia dell’esame particolare di coscienza, che è stato oggetto della prima parte di questo scritto. è veramente molto difficile, fino a sfiorare l’impossibile, pretendere di sradicare questa passione senza essere fedeli a questo strumento spirituale.
C’è da aggiungere, anche se alcuni lo collocano come parte dell’esame particolare, l’imparare ad imporre a noi stessi una penitenza ogni volta che manchiamo nel proposito che ci siamo prefissati per la lotta contro il difetto dominante. Avanzeremo poco se le nostre cadute, perfino ripetute, rimangono impunite. La disciplina ha in questo punto una funzione pedagogica e correttiva di grande valore.
Monsignor Fulton Sheen si appoggia ad un altro elemento importante: far sì che la mancanza predominante sia l’occasione di una crescita nella virtù. Nell’ordine fisico capita con frequenza che quelle parti che sono state danneggiate, una volta riparate, passino ad essere le più forti. Per esempio, il tessuto cutaneo ferito, una volta che si risana, arriva ad essere il più forte di tutta la pelle. In modo simile, un difetto vinto può arrivare ad essere la maggior forza sulla quale una persona conta. Nella vita dei santi vediamo che molti di loro si sono distinti, e li ricordiamo precisamente per quello, per certe virtù che dovettero migliorare per affrontare i loro difetti personali; come il caso, tanto conosciuto, di san Francesco di Sales, che lodiamo per la sua mansuetudine che fu il risultato della sua lotta contro il suo temperamento collerico. In questo senso gli esempi non mancano. “Gli ubriachi, gli alcolizzati, i morfinomani, i materialisti, gli scettici, i lussuriosi, i ghiottoni, i ladri, ecc., tutti possono far sì che l’area della vita in cui sono stati sconfitti si trasformi nell’area della loro maggior vittoria”[24].
Il difetto dominante e i vizi capitali
Molti autori di spiritualità hanno fatto notare che il difetto dominante coincide con uno dei vizi. In realtà sarebbe più esatto dire che ogni difetto dominante può essere ricondotto a qualcuno dei peccati capitali come alla sua ultima radice. Cosí si denominano quei peccati capaci di causare altri peccati.
“Capitalità”, quindi, designa un modo particolare di causalità. Non si tratta di una causalità materiale, nel senso che un peccato dà l’occasione di commetterne un altro, come la gola dà occasione di cadere nella lussuria e l’avarizia dà piede alla lite. Neanche di una causalità efficiente, come capita quando un peccato ripetuto forma un’abitudine che lascia che un’inclinazione torni a commettere lo stesso peccato (un vizio), nè nel senso che apre le porte ad altri peccati per distruggere quello che potrebbe essere un freno per il peccato (come, per esempio, un peccato che distrugge il pudore si converte in causa di molti altri peccati che la persona commetterà d’ora in poi per aver perso la vergogna).
Si tratta, in realtà, di una causalità finale: il vizio capitale è principio direttivo e conducente (ductivus)[25]; cioè, dà origine ad un certo numero di peccati (principio), li dirige (direttivo) verso il proprio interesse. È radice ed inizio di altri peccati che gli servono per raggiungere il suo proprio fine. “Peccato capitale” è quel peccato il cui fine (il piacere sessuale nel caso della lussuria, la vendetta in quello dell’ira, l’esaltazione del proprio io nel caso della superbia) è massimamente gradito da una persona, e per questa ragione spinge la persona a realizzare molti altri peccati che gli permettano di realizzare questo fine. Per esempio, l’avarizia, il cui fine è l’infinito accumulo di ricchezze, muove la psicologia dell’avaro a commettere frodi, inganni, furti, alla durezza del cuore ed alla mancanza di misericordia…, atti tutti senza i quali non potrebbe conseguire il suo fine di accumulare denaro.
Ancor di più, il vizio capitale “plasma” uno stile proprio nei peccati che genera come mezzi per raggiungere il suo fine: “L’oggetto nel quale uno stabilisce il suo ultimo fine domina totalmente l’affetto di un uomo: poiché da esso questi prende la norma di tutta la sua vita”, dice San Tommaso[26]. Dal vizio capitale si prendono le regole sul modo nel quale si vivono e realizzano gli altri peccati generati da questo. Il lussurioso che ruba per ottenere denaro con l’obiettivo di soddisfare la sua concupiscenza, e per lo stesso motivo mente o compie altre azioni, dà a tutti questi atti lo stile della lussuria che lo domina; per questo, Aristotele diceva che chi ruba per commettere adulterio è più adultero che ladro.
I vizi capitali tracciano, quindi, i diversi quadri psicologici dei peccatori.
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La sacra Scrittura non menziona nè il numero nè la lista di questi peccati; ma nei primi sei secoli della Chiesa gli autori spirituali elaborarono tre distinte classificazioni. Cassiano menzionava i vizi principali in quest’ordine: gola, concupiscenza, fornicazione, avarizia, ira, tristezza, accidia o tedio del cuore, vanagloria, superbia; approfondisce sulla vanagloria e l’orgoglio, distingue tra la tristezza e l’accidia ed omette l’invidia[27].
San Giovanni Climaco enumera sette vizi principali identificando la vanagloria e l’orgoglio; negli altri coincide con Cassiano ed anche lui omette l’invidia[28].
La tradizione più forte fu, al contrario, quella di san Gregorio Magno[29], che stabilisce tre livelli collegati:
1º In cima a tutto la superbia, che è “initium omni peccati” (Sir 10,13), la quale è come un vizio super-capitale, giacchè tutti gli altri si originano da essa;
2º Dopo vengono i sette vizi capitali, generati dalla superbia: vanagloria, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria;
3º Infine, quei peccati che san Gregorio chiama “figli dei vizi capitali”, che sono i peccati che ognuno di questi genera in modo speciale.
Gli autori posteriori (tra i quali c’è da separare san Isidoro di Sevilla, Alcuino e Pietro Lombardo) riproducono queste diverse enumerazioni. San Tommaso preferisce l’enumerazione gregoriana ma modificandola leggermente. Secondo lui, i vizi capitali si originano nei diversi modi nei quali l’appetito o l’affetto si riferisce al bene (cercandolo o fuggendolo):
a) La ricerca disordinata della propria eccellenza genera la vanagloria.
b) Il desiderio disordinato del benessere fisico origina la gola; quello del piacere sessuale, la lussuria; e quello dei beni materiali, l’avarizia.
c) Quando al posto di cercare un bene, lo si fugge per paura dello sforzo che implica, abbiamo l’accidia (se si tratta di un bene spirituale) o la pigrizia (se è un bene qualsiasi).
d) Se si rifiuta un bene del prossimo perché lo si vede come rivale della propria fama o eccellenza, cadiamo nell’invidia; e se inoltre al rifiuto si sommano desideri di vendetta o violenza, l’ira.
Conclusione
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In conclusione: è impossibile che chi non si conosca possa raggiungere la perfezione, non fosse altro perché si farà illusioni sul proprio stato (cadendo o in un ottimismo presuntuoso o in uno scoraggiamento deprimente). La conoscenza chiara e ponderata di se stessi stimola a tendere alla perfezione ed aiuta a lavorare su un terreno sicuro. Questa conoscenza deve essere completa, abbracciando tanto le nostre qualità e difetti naturali, quanto i doni soprannaturali ed i difetti nel piano spirituale.
III. I temperamenti o disposizioni innate
Facevamo precedentemente notare l’importanza di conoscere il nostro temperamento in quanto il difetto dominante ha un’intima relazione con la base temperamentale negativa di ognuno di noi, così come ci conviene notevolmente far sviluppare le qualità positive che abbiamo ricevuto come dono. Perciò in queste pagine dedico alcuni paragrafi a questo argomento.