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4° CATECHESI

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La tentazione e il peccato

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Carissimo fratello, carissima sorella,

 

Le occasioni importanti della vita esigono una seria preparazione. Dallo stesso modo come ti prepari per una festa nel vestire degnamente, ben lavati e profumati, dovrai realizzare la tua consacrazione alla Madonna con un abito interiore degno, pulito e profumato.

Non possiamo offrirci alla Madonna interamente pieni di peccati o almeno senza la ferma decisione di abbandonarli.

La consacrazione pertanto esige un cammino di purificazione interiore che ora iniziamo a percorrere: Oggi parleremo come non ci si può consacrare a Maria le nostre persone, conservando volontariamente l’affezione per il peccato.

 

Infatti, questa consacrazione, man mano la realizzi, ti porterà essa ad abbandonare definitivamente il peccato, come insegna San Luigi Maria. Se sei in preda a grandi tentazioni, se percepisci ancora la tua debolezza o addirittura ti trovi in una situazione attuale di peccato, questo non dev’essere per te un impedimento per abbracciare questa consacrazione, ma al contrario, deve incoraggiarti a darti pienamente a Maria Santissima:

 

Affermo che per essere veri devoti della Vergine santa non è assolutamente necessario essere così santi da evitare ogni peccato, per quanto ciò sia desiderabile; ma occorre almeno - si noti bene quanto sto per dire -: 1. Essere sinceramente risoluti ad evitare almeno ogni peccato mortale. Esso offende tanto la Madre quanto il Figlio; 2. Sforzarsi di non commettere peccati (TVD 99).

 

Non importa se ancora conservi delle abitudini peccaminose, puoi iniziare comunque questa consacrazione. Devi soltanto avere l’anima risoluta a dar battaglia al peccato e alle tentazioni! ecco l’unica condizione che ti si chiede per questa consacrazione e che non è impedita nemmeno da alcune cadute che in questa battaglia potrebbero darsi.

 

Iniziamo però subito considerando la situazione della società attuale, e purtroppo anche da molti cattolici, riguardo la realtà del peccato.

Parlavamo prima della sbagliata idea di Dio che è in giro… questa si riflette necessariamente nel poco senso della gravità del peccato, con il quale lo si offende. Trattiamo anzitutto questo punto:

                                 

1. Perdita del senso del peccato

Il Papa Pio XII, il 26 ottobre 1946 nel radiomessaggio trasmesso a conclusione del Congresso Catechetico degli Stati Uniti, tenutosi a Boston, annunciò che «forse il più grande peccato del mondo oggi è che gli uomini hanno cominciato a perdere il senso del peccato».

 

Parole simili sono state dette da Papa Francesco nell’omelia a Santa Marta del venerdì 31 gennaio 2014. Trattando il peccato del Re Davide, spiegava che, quando viene meno la presenza di Dio tra gli uomini, “si perde il senso del peccato”. In questa maniera, un peccato grave di adulterio diventa un “problema da risolvere”… Diceva Papa Francesco: “Ma il problema – il problema più grave in questo brano [dell’uccisione di Uria]– non è tanto la tentazione e il peccato contro il nono comandamento, ma è come agisce Davide. Davide qui non parla di peccato, parla di un problema che deve risolvere. Questo è un segno! Quando il Regno di Dio viene meno, quando il Regno di Dio diminuisce, uno dei segni è che si perde il senso del peccato”.

 

Potendo fare diversi altri riferimenti ci sembra che la spiegazione più completa della perdita del senso del peccato la troviamo nel punto n. 18 dell’esortazione post-sinodale Reconciliatio et poenitentia, di San Giovanni Paolo II, che riproduciamo per completo:

 

Perdita del senso del peccato

Dal Vangelo letto nella comunione ecclesiale la coscienza cristiana ha acquisito, lungo il corso delle generazioni, una fine sensibilità e un’acuta percezione dei fermenti di morte, che sono contenuti nel peccato. Sensibilità e capacità di percezione anche per individuare tali fermenti nelle mille forme assunte dal peccato, nei mille volti sotto i quali esso si presenta. È ciò che si suol chiamare il senso del peccato.

Questo senso ha la sua radice nella coscienza morale dell’uomo e ne è come il termometro. È legato al senso di Dio, giacché deriva dal rapporto consapevole che l’uomo ha con Dio come suo creatore, Signore e Padre. Perciò, come non si può cancellare completamente il senso di Dio né spegnere la coscienza, così non si cancella mai completamente il senso del peccato.

 

La coscienza. Eppure, non di rado nella storia, per periodi di tempo più o meno lunghi e sotto l’influsso di molteplici fattori, succede che viene gravemente oscurata la coscienza morale in molti uomini. “Abbiamo noi un’idea giusta della coscienza”? – domandavo due anni fa in un colloquio con i fedeli –. “Non vive l’uomo contemporaneo sotto la minaccia di un’eclissi della coscienza? di una deformazione della coscienza? di un intorpidimento o di un’"anestesia" delle coscienze?” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/1 [1982] 861). Troppi segni indicano che nel nostro tempo esiste una tale eclissi, che è tanto più inquietante, in quanto questa coscienza, definita dal Concilio “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo” (Gaudium et spes 16), è “strettamente legata alla libertà dell’uomo (...). Per questo la coscienza in misura principale sta alla base della dignità interiore dell’uomo e, nello stesso tempo, del suo rapporto con Dio” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/1 [1982] 860).

Il senso di Dio. È inevitabile, pertanto, che in questa situazione venga obnubilato anche il senso di Dio, il quale è strettamente connesso con la coscienza morale, con la ricerca della verità, con la volontà di fare un uso responsabile della libertà. Insieme con la coscienza viene oscurato anche il senso di Dio, e allora, smarrito questo decisivo punto di riferimento interiore, si perde il senso del peccato. Ecco perché il mio predecessore Pio XII, con una parola diventata quasi proverbiale, poté dichiarare un giorno che “il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato” (Pio XII, Discorsi e radiomessaggi, VIII [1946] 288).


Perché questo fenomeno nel nostro tempo? Uno sguardo a talune componenti della cultura contemporanea può aiutarci a capire il progressivo attenuarsi del senso del peccato, proprio a causa della crisi della coscienza e del senso di Dio, sopra rilevata.

Il “secolarismo”, il quale, per la sua stessa natura e definizione, è un movimento di idee e di costumi che propugna un umanesimo che astrae totalmente da Dio, tutto concentrato nel culto del fare e del produrre e travolto nell’ebbrezza del consumo e del piacere, senza preoccupazione per il pericolo di “perdere la propria anima”, non può non minare il senso del peccato. Quest’ultimo si ridurrà tutt’al più a ciò che offende l’uomo. Ma proprio qui si impone l’amara esperienza, a cui già accennavo nella mia prima enciclica, che cioè l’uomo può costruire un mondo senza Dio, ma questo mondo finirà per ritorcersi contro l’uomo (cf. Redemptor hominis RH 15). In realtà, Dio è la radice e il fine supremo dell’uomo, e questi porta in sé un germe divino (cf. Gaudium et spes GS 3); (cf. 1Jn 3,9). Perciò, è la realtà di Dio che svela e illumina il mistero dell’uomo. È vano, quindi, sperare che prenda consistenza un senso del peccato nei confronti dell’uomo e dei valori umani, se manca il senso dell’offesa commessa contro Dio, cioè il senso vero del peccato.


Svanisce questo senso del peccato nella società contemporanea anche per gli equivoci in cui si cade nell’apprendere certi risultati delle scienze umane. Così in base a talune affermazioni della psicologia, la preoccupazione di non colpevolizzare o di non porre freni alla libertà, porta a non riconoscere mai una mancanza. Per un’indebita estrapolazione dei criteri della scienza sociologica si finisce – come ho già accennato – con lo scaricare sulla società tutte le colpe, di cui l’individuo vien dichiarato innocente. Anche una certa antropologia culturale, a sua volta a forza di ingrandire i pur innegabili condizionamenti e influssi ambientali e storici che agiscono sull’uomo, ne limita tanto la responsabilità da non riconoscergli la capacità di compiere veri atti umani e, quindi, la possibilità di peccare.

Scade facilmente il senso del peccato anche in dipendenza di un’etica derivante da un certo relativismo storicistico. Essa può essere l’etica che relativizza la norma morale, negando il suo valore assoluto e incondizionato, e negando, di conseguenza, che possano esistere atti intrinsecamente illeciti, indipendentemente dalle circostanze in cui sono posti dal soggetto. Si tratta di un vero “rovesciamento e di una caduta di valori morali”, e “il problema non è tanto di ignoranza dell’etica cristiana”, ma “piuttosto è quello del senso, dei fondamenti e dei criteri dell’atteggiamento morale” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/1 [1982] 1081). L’effetto di questo rovesciamento etico è sempre anche quello di attutire a tal punto la nozione di peccato, che si finisce quasi con l’affermare che il peccato c’è, ma non si sa chi lo commette.


Svanisce, infine, il senso del peccato quando – come può avvenire nell’insegnamento ai giovani, nelle comunicazioni di massa, nella stessa educazione familiare – esso viene erroneamente identificato col sentimento morboso della colpa o con la semplice trasgressione di norme e precetti legali.


La perdita del senso del peccato, dunque, è una forma o un frutto della negazione di Dio: non solo di quella ateistica, ma anche di quella secolaristica. Se il peccato è l’interruzione del rapporto filiale con Dio per portare la propria esistenza fuori dell’obbedienza a lui, allora peccare non è soltanto negare Dio; peccare è anche vivere come se egli non esistesse, è cancellarlo dal proprio quotidiano. Un modello di società mutilato o squilibrato nell’uno o nell’altro senso, quale è spesso sostenuto dai mezzi di comunicazione, favorisce non poco la progressiva perdita del senso del peccato. In tale situazione l’offuscamento o affievolimento del senso del peccato risulta sia dal rifiuto di ogni riferimento al trascendente in nome dell’aspirazione all’autonomia personale; sia dall’assoggettarsi a modelli etici imposti dal consenso e costume generale, anche se condannati dalla coscienza individuale; sia dalle drammatiche condizioni socio-economiche che opprimono tanta parte dell’umanità, generando la tendenza a vedere errori e colpe soltanto nell’ambito del sociale; sia, infine e soprattutto, dall’oscuramento dell’idea della paternità di Dio e del suo dominio sulla vita dell’uomo.

Persino nel campo del pensiero e della vita ecclesiale alcune tendenze favoriscono inevitabilmente il declino del senso del peccato. Alcuni, ad esempio, tendono a sostituire esagerati atteggiamenti del passato con altre esagerazioni: essi passano dal vedere il peccato dappertutto al non scorgerlo da nessuna parte; dall’accentuare troppo il timore delle pene eterne al predicare un amore di Dio, che escluderebbe ogni pena meritata dal peccato; dalla severità nello sforzo per correggere le coscienze erronee a un presunto rispetto della coscienza, tale da sopprimere il dovere di dire la verità. E perché non aggiungere che la confusione, creata nella coscienza di numerosi fedeli dalle divergenze di opinioni e di insegnamenti nella teologia, nella predicazione, nella catechesi, nella direzione spirituale, circa questioni gravi e delicate della morale cristiana, finisce per far diminuire, fin quasi a cancellarlo, il vero senso del peccato? Né vanno taciuti alcuni difetti nella prassi della penitenza sacramentale: tale è la tendenza a offuscare il significato ecclesiale del peccato e della conversione, riducendoli a fatti meramente individuali, o viceversa, ad annullare la valenza personale del bene e del male per considerarne esclusivamente la dimensione comunitaria; tale è anche il pericolo, non mai totalmente scongiurato, del ritualismo abitudinario che toglie al sacramento il suo pieno significato e la sua efficacia formativa.


Ristabilire il giusto senso del peccato è la prima forma per affrontare la grave crisi spirituale incombente sull’uomo del nostro tempo. Ma il senso del peccato si ristabilisce soltanto con un chiaro richiamo agli inderogabili principi di ragione e di fede, che la dottrina morale della Chiesa ha sempre sostenuto.

È lecito sperare che soprattutto nel mondo cristiano ed ecclesiale riaffiori un salutare senso del peccato. A ciò serviranno una buona catechesi, illuminata dalla teologia biblica dell’alleanza, un attento ascolto e una fiduciosa accoglienza del magistero della Chiesa, che non cessa di offrire luce alle coscienze, e una prassi sempre più accurata del sacramento della penitenza.

 

 

Cosa è il peccato?

S. Agostino lo definiva come amore di sé stessi, fino all’odio di Dio.

Il peccato è la morte dell’anima dal quale dobbiamo avere una vera e propria paura:

 

E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna (Mt 10,28).

Proprio ci si comanda il timore… timore di peccare. Evidentemente il peccato è più che “calpestare un fiore” o “un problema da risolvere” o “uno sbaglio psicologico”… deve racchiudere una malizia non indifferente in quanto significa, essenzialmente, un disprezzo di Dio… “amore di sé stesso che porta all’odio di Dio” ripetiamo con Sant’Agostino.

 

Tutto si trova nell’uso che vogliamo fare della nostra libertà. Su questo punto scrive P. Carlos Buela:

“Dice Chesterton che le finestre sono qualcosa di affascinante. E ha ragione, perché le finestre hanno sempre qualcosa di misterioso, nella misura in cui ci “spronano” verso un “aldilà” che la parte ci impedisce di vedere.

Io potrei amare troppo le finestre. Posso provare tanto piacere nell’osservare attraverso di esse che potrei incluso ingrandire le mie finestre, per poter vedere di più. E questa gioia che producono le finestre, insieme con la curiosità che mi genera mi potrebbe portare così lontano che vorrei che tutta la mia casa fossi una finestra… Vivere in una finestra significherebbe come se vivessi in qualcosa di infinito, senza limiti né frontiere… Senza restrizioni, divieti… senza un marchio.

Senza un marchio? Ma… esistono delle finestre senza dei marchi?

Se volessi che la mia casa fosse solo una finestra, mi ritroverei senza una casa… e molto di meno, una finestra…

La libertà è come una finestra. Attraverso di essa si può aspirare l’aria fresca della vita, e, quando si vive in libertà, la nostra vita stessa diventa piena e raggiunge delle dimensioni inimmaginabili.

I marchi son essenziali affinché esistano delle finestre; anche affinché ci sia libertà.

Perciò, caro giovane, ama la libertà; ama i marchi.

Dice la Sacra Scrittura: “Davanti agli uomini c’è la vita e la morte; ad ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà” (Si 15,17). Quando il giovane decide di guardare la realtà, la vita, il mondo, di spalle a Dio, lì, in quello stesso istante, tutto, assolutamente tutto, cambia di senso, o piuttosto, lo perde…. Ciò che è limpido diventa torbido, ciò che è chiaro diventa confuso, il giorno diventa notte[1].

 

 

I comandamenti non sono un modo di annullare la libertà. Sono quelle finestre che permettono alla libertà essere tali.

Se per esempio dobbiamo utilizzare un frigorifero, leggiamo il foglio illustrattivo, magari anche molto lungo, che ci offrono quelli che lo hanno fabbricato, affinché possa funzionare bene.

Il Creatore delle nostre anime e corpi ci ha offerto un foglietto più semplice di questo, di soli 10 punti quali sono i comandamenti, affinché ognuno possa vivere bene… e non avremmo per essi una gratitudine invece di un disprezzo?

 

 

2. La lotta contro il peccato.

 

Qual è la differenza tra peccato mortale e peccato veniale?

 

Bisogna partire da quanto ci insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica riguardo le condizioni per poter affermare che ci si è caduti in un peccato mortale o veniale. Per l’importanza di un’idea chiara al riguardo, riportiamo diversi numeri riferiti a questo tema:

 

1854 È opportuno valutare i peccati in base alla loro gravità. La distinzione tra peccato mortale e peccato veniale, già adombrata nella Scrittura (Cfr. 1 Gv 5,16-17), si è imposta nella Tradizione della Chiesa. L'esperienza degli uomini la convalida.

 

Diverse conseguenze del peccato a seconda sia mortale o veniale.

 

1855 Il peccato mortale distrugge la carità nel cuore dell'uomo a causa di una violazione grave della Legge di Dio; distoglie l'uomo da Dio, che è il suo fine ultimo e la sua beatitudine, preferendo a lui un bene inferiore.

Il peccato veniale lascia sussistere la carità, quantunque la offenda e la ferisca.

1856 Il peccato mortale, in quanto colpisce in noi il principio vitale che è la carità, richiede una nuova iniziativa della misericordia di Dio e una conversione del cuore, che normalmente si realizza nel sacramento della Riconciliazione:

«Quando la volontà si orienta verso una cosa di per sé contraria alla carità, dalla quale siamo ordinati al fine ultimo, il peccato, per il suo stesso oggetto, ha di che essere mortale [...] tanto se è contro l'amore di Dio, come la bestemmia, lo spergiuro, ecc., quanto se è contro l'amore del prossimo, come l'omicidio, l'adulterio, ecc. [...] Invece, quando la volontà del peccatore si volge a una cosa che ha in sé un disordine, ma tuttavia non va contro l'amore di Dio e del prossimo — è il caso di parole oziose, di riso inopportuno, ecc. —, tali peccati sono veniali» (San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 88, a. 2, c: Ed. Leon. 7, 135).

 

1857 Perché un peccato sia mortale si richiede che concorrano tre condizioni: «È peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso». 

1858 La materia grave è precisata dai dieci comandamenti, secondo la risposta di Gesù al giovane ricco: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre» (Mc 10,19). La gravità dei peccati è più o meno grande: un omicidio è più grave di un furto. Si deve tenere conto anche della qualità delle persone lese: la violenza esercitata contro i genitori è di per sé più grave di quella fatta ad un estraneo.

1859 Perché il peccato sia mortale deve anche essere commesso con piena consapevolezza e pieno consenso. Presuppone la conoscenza del carattere peccaminoso dell'atto, della sua opposizione alla Legge di Dio. Implica inoltre un consenso sufficientemente libero perché sia una scelta personale. L'ignoranza simulata e la durezza del cuore non diminuiscono il carattere volontario del peccato ma, anzi, lo accrescono.

 

Stabiliti questi principi trascriviamo una descrizione, anche se per momenti sarà ripetitiva dei testi del Catechismo, da Antonio Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana:

 

151. Il peccato è “il nemico numero uno” della nostra santificazione e, in realtà, il nemico unico, giacché tutti gli altri lo sono solo in quanto derivano dal peccato o ad esso conducono.

Il peccato è una “trasgressione volontaria della legge di Dio”. Suppone sempre tre elementi essenziali: materia proibita (o ritenuta tale secondo la coscienza…)[2], avvertenza da parte dell’intelletto e consenso o accettazione da parte della volontà. Se la materia è grave e l’avvertenza e il consenso perfetti, abbiamo il peccato mortale; se la materia è leggere o l’avvertenza e il consenso imperfetti, il peccato è veniale.

 

Articolo I

Il peccato mortale

 

152. I peccatori – Sono troppi, purtroppo, gli uomini che vivono abitualmente in peccato mortale. Assorbiti quasi completamente dalle preoccupazioni della vita, occupati negli affari professionali, divorati da una sete insaziabile di piaceri e di divertimenti e immersi in una ignoranza religiosa che giunge spesso a estremi incredibili, non si pongono neppure il problema dell’al di là. Alcuni, soprattutto se hanno ricevuto nell’infanzia una certa educazione cristiana e conservano ancora un barlume di fede, sogliono reagire dinanzi alla morte imminente e ricevono con dubbie disposizioni gli ultimi sacramenti prima di comparire davanti a Dio; ma molti altri scendono nel sepolcro rattristati solo dal pensiero di dover abbandonare per sempre questo mondo, al quale avevano profondamente attaccato il cuore.

Questi infelici sono delle “anime paralitiche – dice Santa Teresa – alle quali se il Signore non comanderà di alzarsi, toccherà serio pericolo e sventura assai grave”.

Infatti, li sovrasta il pericolo dell’eterna dannazione. Il peccato mortale abituale ha talmente adombrato le loro anime, che “non vi sono tenebre sì folte, né cose tanto tetre e buie, che non siano superate e di molto”. Santa Teresa afferma che, se i peccatori conoscessero la condizione di un’anima che pecca mortalmente “sarebbe impossibile che alcuno potesse ancora peccare, anche se per fuggirne le occasioni dovesse soffrire i maggiori tormenti immaginabili”.

 

 

Tuttavia, non tutti coloro che vivono abitualmente in peccato hanno contratto la medesima responsabilità davanti a Dio. Possiamo distinguere quattro specie di peccati rappresentanti altrettanti categorie di peccatori:

a) I peccati di ignoranza: Non ci riferiamo all’ignoranza totale e invincibile – che toglierebbe ogni responsabilità morale - ma–a quella che è frutto di una educazione antireligiosa o indifferente e che si associa ad una intelligenza mediocre e ad un ambiente ostile e refrattario ad ogni influenza religiosa. Coloro che vivono in tali condizioni avvertono di solito, una certa malizia nel peccato. Si rendono perfettamente conto che certe azioni ripetute di frequente non sono moralmente rette. Sentono, forse, ogni tanto, il pungolo del rimorso. Hanno quindi, una sufficiente capacità per commettere liberamente un vero peccato mortale che li allontana dalla via della salvezza.

Però è necessario riconoscere che la loro responsabilità è molto attenuata davanti a Dio. Se hanno conservato l’orrore per quello che pareva loro più ingiusto e peccaminoso; se il fondo del loro cuore, nonostante le debolezze esterne, si è mantenuto retto in quello che è fondamentale e se hanno coltivato, sia pure in modo superficiale, qualche devozione alla Vergine; se si sono astenuti dall’attaccare la religione e i suoi ministri e, soprattutto, se nell’ora della morte innalzano il loro cuore a Dio pentiti e fiduciosi nella sua misericordia, non v’è dubbio che saranno giudicati con benignità, allorché si troveranno di fronte al tribunale divino. Se Cristo ha detto che molto sarà chiesto a chi molto fu dato (Lc 12,48), è lecito pensare che poco sarà chiesto a chi poco ha ricevuto.

Costoro sogliono tornare a Dio con relativa facilità quando se ne presenta l’occasione. Siccome la loro vita dissipata non proviene da vera malvagità, ma da una profonda ignoranza, tutto ciò che impressiona fortemente la loro anima – come la morte di un famigliare, la predica di un missionario, un dissesto finanziario – d’ordinario basta per riportarli sul retto cammino. Tuttavia non brilleranno mai né per fervore né per dottrina e il sacerdote deve ammonirli spesso dell’obbligo che hanno di completare la loro formazione onde non correre rischio di ritornare al loro stato primitivo.

b) I peccati di fragilità. - Sono molte le persone sufficientemente istruite in fatto di religione di cui i disordini non possono attribuire alla semplice ignoranza o misconoscenza dei propri doveri. Ciononostante, non peccano per calcolata e fredda malvagità. Sono deboli, di scarsa energia di volontà, fortemente inclinate ai piaceri sensuali, irriflessive. Lamentano le loro cadute, ammirano i buoni, “vorrebbero” essere come loro, però poco si impegnano per divenirlo veramente. Queste disposizioni non le scusano dal peccato; anzi, sono più colpevoli di coloro che peccano per ignoranza, dal momento che vi si abbandonano con maggior cognizione di causa. Tuttavia, in fondo, sono più deboli che cattive. Chi ha il compito di vigilare su di esse deve preoccuparsi, anzitutto, di renderle salde nei loro buoni propositi, portandole alla frequenza dei sacramenti, alla riflessione, alla fuga delle occasioni, ecc., onde sottrarle definitivamente alla loro triste condizione e orientarle verso le vie del bene.

c) I peccati di indifferenza. – La terza categoria è costituita da coloro che peccano non per ignoranza o per fragilità, ma per meditata indifferenza. Peccano pur sapendo di peccare; non perché vogliano il male in quanto offesa di Dio, ma perché non sanno rinunciare ai propri piaceri e poco si curano se la loro condotta non è accetta agli occhi di Dio. Peccano con meditata indifferenza, senza rimorsi di coscienza e se anche questi sopraggiungono li mettono a tacere per continuare indisturbati sulla loro via.

La loro conversione è molto difficile, data la continua infedeltà alle mozioni della grazia, la consapevole noncuranza dei principi morali e il disprezzo sistematico dei buoni consigli che possono ricevere da coloro che hanno a cuore il loro bene.

Il mezzo più efficace per ricondurli a Dio sarebbe forse di persuaderli a prender parte ad un corso di  esercizi spirituali con persone della medesima professione e condizione sociale. Benché la cosa possa apparire strana, non è raro che essi, magari per curiosità – “per vedere che cosa è questo” – accettino di farli. E qui li aspettano spesso le grazie divine più straordinarie. Si registrano conversioni strepitose, cambiamenti radicali di condotta: individui che prima vivevano completamene dimentichi di Dio intraprendono una vita di pietà e di fervore. Il sacerdote che ha avuto la buona ventura di essere lo strumento della divina misericordia dovrà vigilare sul nuovo convertito e, mediante una saggia e opportuna direzione spirituale, cercare di consolidare il frutto di quel meraviglioso ritorno a Dio.

d) I peccato di ostinazione e di malizia. – C’è, infine, una quarta categoria di peccatori, la peggiore di tutte. Sono coloro che si dànno al male per raffinata malizia e satanica ostinazione. Il loro peccato più abituale è la bestemmia, intesa come espressione di odio verso Dio. All’inizio furono forse buoni cristiani, però sdrucciolarono a poco a poco; le passioni, sempre più accontentate, acquistarono proporzioni gigantesche, e arrivò il momento in cui si considerarono definitivamente perduti. Frutto della disperazione, la defezione e l’apostasia. Infrante le ultime barriere che li trattenevano sull’orlo del precipizio, si abbandonarono, per una specie di vendetta contro Dio e contro la propria coscienza, ad ogni sorta di delitti e di disordini. Attaccano fieramente la religione, combattono la Chiesa, odiano i buoni, fanno parte delle sétte anticattoliche e, perseguitati dai rimorsi della propria coscienza, si immergono sempre più nel male. E’ il caso di Giuliano l’Apostata, Lutero, Calvino, Voltaire e di tanti altri che hanno trascorso la vita rifiutando ostinatamente la luce e odiando Dio e tutto quanto è santo. Si direbbe che sono come un’incarnazione di Satana. Uno di questi disgraziati giunse a dire: “Io non credo all’esistenza dell’inferno; però, se esiste ed io vi andrò, almeno avrò il piacere di non curvarmi mai davanti a Dio”. Un altro “Se nell’ora della morte chiedessi un sacerdote per confessarmi, non chiamatelo perché starò delirando”.

Per convertire un’anima di queste ci vuole un miracolo. La persuasione e il consiglio riescono inutili; anzi, potrebbero conseguire un effetto contrario. Non rimane che la via soprannaturale: l’orazione, il digiuno, le lacrime, l’incessante ricorso alla Vergine Maria, avvocata e rifugio dei peccatori.

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Come abbandonare il peccato?

Facciamo astrazione da questi infelici e volgiamo il nostro sguardo a coloro che peccano per fragilità o per ignoranza, a quella folta schiera di gente che in fondo ha fede, pratica qualche devozione, rivolge talora il pensiero alle cose dell’anima e dell’eternità, ma che assorbita in affari e preoccupazioni mondane, conduce una vita quasi puramente naturale, sollevandosi e ricadendo continuamente, rimanendo forse per lunghi anni in stato di peccato mortale. E’ la condizione dei cristiani dal “programma minimo”: messa domenicale, confessione annuale, qualche preghiera. In essi è poco sviluppato il senso cristiano, e si abbandonano ad una vita senza orizzonti soprannaturali, nella quale gli istinti hanno il sopravvento sulla ragione e la fede e molti corrono il rischio di perdersi.

Che cosa si può fare per portare queste anime ad una vita più cristiana, più in armonia con le esigenze del battesimo e i loro interessi eterni?

Innanzi tutto occorre ispirare loro un grande orrore per il peccato mortale.

 

 

3. Per allontanarsi dai peccati mortali.

 

Il principale dei mezzi indicati da Royo Marin, sul quale ci soffermiamo, è quello di infondere un vero orrore per il peccato mortale.

 

153. L’orrore per il peccato mortale. – Per conseguirlo, non c’è niente di meglio, dopo l’orazione, che la considerazione della sua gravità e delle sue terribili conseguenze. Ascoltiamo Santa Teresa:

“Non vi sono tenebre sì folte, né cose tanto tetre e buie, che non ne siano superate e di molto (si riferisce all’anima in peccato mortale)… Finché dura in peccato mortale, non le giovano a nulla per l’acquisto della gloria neppure le sue buone opere, perché non procedono da quel principio per cui la nostra virtù è virtù…. Io so di una persona (parla di se stessa) a cui il Signore volle far vedere lo stato di un anima in peccato mortale. Secondo lei, sarebbe impossibile, comprendendolo bene, che alcuno potesse ancora peccare, anche se per fuggirne le occasioni dovesse soffrire i maggiori tormenti immaginabili. Anime redente dal sangue di Gesù Cristo, aprite gli occhi ed abbiate pietà di voi stesse. Com’è possibile che persuase di questa verità non procurate di togliere la pece che copre il vostro cristallo? Se la morte vi sorprende in questo stato, quella luce non la godrete mai più!... Oh Gesù!... Che spettacolo vedere un’anima priva di quel lume! Come rimangono le povere stanze del castello! Che turbamento s’impossessa dei sensi che ne sono gli abitanti! In che stato di accecamento e mal governo cadono le potenze che ne sono le guardie, i maggiordomi e gli scalchi! Ma siccome l’albero è piantato nella stessa terra del demonio, che altro potrebbe dare? Udii una volta una persona spirituale meravigliarsi non tanto di ciò che faccia un’anima in peccato mortale, quanto di ciò che non faccia. Ci liberi Iddio, nella sua misericordia, da una male così funesto, il solo che quaggiù possa meritare questo nome, degno di castighi che non avranno fine in eterno”. (Prime mansioni II, 1, 2, 4 e 5).

 

Per aiutarci in questi mezzi riportiamo alcune riflessioni per acquistare orrore al peccato di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori: Via della salute.

 

Prima riflessione: Il peccato distrugge l’amicizia con Dio

Il peccato è un’offesa a Dio, e in quanto tale è un danno che ha una gravità infinita, poiché offende Dio che è infinitamente buono. Il peccato mortale infrange l’amicizia che ci unisce al nostro Creatore. Il peccatore quando sta deliberando se dare o negare il consenso al peccato, allora per così dire prende in mano la bilancia e si mette a vedere, se vale più la grazia di Dio, o quello sfogo d’ira, quell’interesse, quel diletto.

Quando poi dà il consenso alla tentazione, allora che fa? Allora dice che vale più quel misero piacere, che non vale la grazia di Dio. Ecco dunque come egli disonora Dio, dichiarando col suo consenso che vale più quel misero piacere, che non l’amicizia divina. Così dunque, mio Dio, tante volte io vi ho disonorato, posponendovi ai miei miserabili gusti.

 

Se il peccatore cambiasse Dio per un tesoro di gemme, per un regno, farebbe ugualmente un gran male, perché Dio vale infinitamente più di tutti i tesori e regni della terra. Ma perché tanti lo cambiano? Lo cambiano per un fumo, per un poco di terra, per un piacere avvelenato, che appena avuto sparisce.

Ah mio Dio, e come tante volte io ho potuto aver l’animo per beni così vili da disprezzare voi, che m’avete tanto amato? Io non voglio vedermi più in disgrazia vostra. Fatemi prima morire, ch’io di nuovo abbia ad offendervi.

Maria Madre di Dio, esauditemi ancora voi; intercedete per me affinché io sempre sia di Dio, e Dio sia sempre mio.

 

 

Seconda riflessione: Il peccato è un disprezzo che si fa a Dio.

“Ecco come lo stesso Dio lo dichiara, e ne fa espressi lamenti: Ho nutrito dei figli e li ho allevati, ma essi si sono ribellati a me (Is I, 2). Io ho sollevato i miei figli, li ho conservati e nutriti; ma essi con barbara ingratitudine mi hanno disprezzato. Ma chi è questo Dio, che da questi uomini è disprezzato?

È il Creatore del cielo e della terra: è un bene infinito, un Signore così grande, che a suo confronto tutti gli uomini e tutti gli angeli sono come una goccia di acqua ed un granello di sabbia, come il pulviscolo sulle bilance (Is 40, 15).

Insomma, tutte le creature davanti alla sua infinita grandezza sono come se non fossero. Ma, oh Dio, che ho fatto! Voi, mio Redentore avete tanto stimata l’anima mia che ci avete speso il sangue per non vederla perduta, ed io ho voluto perderla per niente, per un capriccio, per uno sfogo di rabbia, per un misero diletto, disprezzando la vostra grazia e il vostro amore! Ah mio Dio, e chi son io che vi ho disprezzato? Un povero verme che niente può ed altro non ha, se non quello che voi avete dato per vostra bontà. Voi mi avete dato l’anima, il corpo, l’uso della ragione e tanti beni su questa terra; ed io di tutto mi son servito per offender voi, mio benefattore. Che più? Nello stesso tempo che da voi m’era conservata la vita, affinché io non cadessi nell’inferno che meritavo, io seguitavo a maltrattarvi. Ah mio Salvatore, e come avete avuto tanta pazienza con me! Misero me, quante notti ho dormito in disgrazia vostra.

 

O Maria, rifugio dei peccatori, soccorrete un peccatore, che a voi si raccomanda.

 

Terza riflessione: Il peccatore nega a Dio l’ubbidienza.

Quando Mosè annunciò al Faraone l’ordine di Dio che lasciasse in libertà il suo popolo, rispose il temerario: Chi è il Signore che io debba ubbidire alla sua voce? Io non conosco il Signore (Es 5,2).

Lo stesso dice il peccatore, quando la coscienza gli ricorda intimamente il precetto divino e gli proibisce di fare quel peccato, ed egli risponde: Ora in questo fatto io non conosco Dio: so ch’egli è il mio Signore, ma non voglio ubbidirgli.

La voce di Dio si fa sentire al peccatore quando è tentato, dicendogli: “Figlio, questo non ti conviene, non ti prender questo infame piacere, lascia questa roba, che non è tua”. Ma egli peccando risponde: “Signore, non vi voglio servire. Voi non volete che io faccia questo peccato, ed io voglio farlo”. Così vi ho detto più volte, o mio Dio, quando ho peccato. Se voi non foste morto per me, o mio Redentore, non avrei il coraggio neppure di cercarvi perdono; ma voi stesso dalla croce questo perdono mi offrite, se io lo voglio. Sì che lo voglio; mi pento di avervi disprezzato, o sommo bene. Prima morire che mai più offendervi.

 

Maria, rifugio mio, a voi chiedo la grazia di essere fedele a Dio sino alla morte.

 

 

Quarta riflessione: L’uomo peccando affligge il cuore di Dio.

Dio in sé stesso non è capace di dolore. Gesù era vero Dio ma anche vero uomo, e pertanto poté soffrire. Ma Dio in sé, non può soffrire propriamente. Ma se ne fosse capace, ogni peccato degli uomini basterebbe ad affliggerlo e a fargli perdere la pace. S. Bernardo spiega che il peccato mortale è di tanta malizia, che in quanto a sé, “perimit Deum”, cioè, uccide Dio. Se Dio potesse morire, il peccato mortale lo priverebbe di vita. Il motivo è questo: Ciò che è causa di tristezza infinita potrebbe distruggere Dio, amore infinito. Consideriamo quanto ci rattristerebbe il vederci offesi da qualcuno che fosse stato molto amato e beneficato da noi. Ora, vedendo Dio un uomo al quale ha fatti tanti benefici e al quale ha portato tanto amore, fino al punto di dare il sangue e la vita per lui, e poi vedere come costui gli volta le spalle e disprezza la sua grazia per niente, per uno sfogo di rabbia, per un breve piacere; se fosse capace di pena e di abbattimento, se ne morirebbe per l’amarezza che ne sente.

 

Dio ci guarda sempre, perfino quando pecchiamo. Quando una persona vuole fare qualcosa di male, cerca di nascondersi affinché non si scopra il suo male, e quando viene smascherato il suo peccato, ne prova grande vergogna. Il peccato è come schiaffeggiare Dio, come sputargli in faccia. Qual suddito avrebbe mai l’arroganza di rompere la legge innanzi al suo medesimo principe? Ma il peccatore già sa che Dio lo vede, e nonostante tutto ciò non si ferma di peccare innanzi al suo Dio, facendolo testimone del suo peccato. Ecco perché la vita del nostro Redentore fu così amara e penosa, perché Egli, l’amante Redentore nostro, ebbe sempre avanti agli occhi i nostri peccati. Ecco perché specialmente ancora nell’orto del Getsemani, Egli sudò sangue e patì agonia di morte, dichiarando che era tanta la sua tristezza che bastava a togliergli la vita.

Triste è la mia anima fino alla morte (Mc 14,34). Che cosa lo fece così agonizzare e sudar sangue se non la vista delle nostre colpe?

 

Ah mio caro Salvatore, ecco il temerario che in faccia Vostra ha disprezzato i Vostri santi precetti. Io dunque sono quel peccatore perduto, che merito l’inferno; ma Voi siete il mio Salvatore, che siete venuto a togliere i peccati e a salvare i perduti.

Maria, speranza mia, abbiate di me pietà.

 

 

Fin qui la nostra considerazione sul peccato mortale. Riguardo quello veniale, che pur non significando la morte dell’anima ha anche esso delle funeste conseguenze, verrà trattato nel secondo blocco di lezioni in sé stesso, come parte integrante della tiepidezza.

 

 

*

La tentazione

 

Bisogna ricordare anzitutto che la tentazione non coincide con il peccato. La tentazione è una proposta di peccato, un richiamo, un invito a peccare. Abbiamo due possibili conseguenze: l’accettazione di tale invito costituisce il peccato. Il rifiuto dell’invito a peccare è una vittoria, un aumento dell’amore e la virtù. Rifiutarle accresce l’amore e la virtù, significa una fedeltà al Signore provata, dimostrata, nel resistere.

Mai rattristarsi di avere delle tentazioni. Il Signore fu tentato. I santi lo sono stati. Perché noi dovremmo essere liberi?

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4. L’origine delle tentazioni

 

Anche qui riportiamo alcuni punti presi da Royo Marin:

 

162. Il Dottore angelico afferma che è compito specifico del demonio quello di tentare. Ma aggiunge subito che non tutte le tentazioni che assalgono l’uomo vengono dal demonio; alcune traggono origine dalla propria concupiscenza, come dice l’apostolo San Giacomo: “Ognuno è tentato dalle proprie concupiscenze, che lo attraggono e seducono” (Gc 1,14). E’ fuori dubbio, tuttavia, che molte tentazioni sono suscitate dal demonio, che invidia l’uomo e detesta Dio. Lo attesta espressamente la divina rivelazione: “Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere agli agguati del diavolo. Poiché non abbiamo noi da lottare contro la carne e il sangue ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti maligni sparsi nell’aria” (Ed. 6,11-12). E S. Pietro paragona il demonio ad un leone ruggente che gira attorno cercando di divorarci (1Piet. 5,8).

Non c’è una forma fissa o un segno chiaro che ci permetta di riconoscere quando una tentazione proviene dal demonio o da un’altra causa. Tuttavia, quando essa è repentina, violenta e tenace; quando non si è posta nessuna causa prossima o remota capace di suscitarla, quando turba profondamente l’anima, suggerisce il desiderio di cose straordinarie e appariscenti, o spinge a diffidare dei superiori, a tacere con il direttore spirituale la si può ritenere come un intervento più o meno diretto del demonio.

 

Dio non tenta mai nessuno incitandolo al male (Gc 1,13). Quando la Scrittura parla delle tentazioni di Dio usa il termine “tentazione” in un senso lato, come semplice esperimento di una cosa – tentare, cioè, imparare dall’esperienza, - non per perfezionare la scienza divina, ma per accrescere la conoscenza e l’utilità dell’uomo. Dio consente che siamo provati dai nostri nemici spirituali per offrirci l’occasione di maggiori meriti. Egli non permetterà mai che siamo tentati sopra le nostre forze: “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre il vostro potere, ma con la tentazione provvederà anche il buon esito dandovi il potere di sostenerla” (1Cor, 10,13). Sono innumerevoli i vantaggi della tentazione superata con l’aiuto di Dio. Umilia Satana, fa risplendere la gloria di Dio, purifica la nostra anima, ci riempie di umiltà, pentimento e fiducia nell’aiuto divino; ci obbliga a stare sempre vigili, a diffidare di noi stessi, sperando tutto da Dio, a mortificare i nostri gusti e capricci; stimola all’orazione; aumenta la nostra esperienza, e ci rende più circospetti e cauti nella lotta. A ragione afferma S. Giacomo che è “beato l’uomo che sopporta la tentazione, perché una volta provato riceverà la corona della vita che Dio ha promesso a coloro che lo amano” (Gc 1,12).

 

164. Condotta pratica davanti alla tentazione. – Vogliamo precisare meglio la condotta dell’anima prima, durante e dopo la tentazione. Non solo servirà a completare la nostra trattazione, ma riuscirà di grnade utilità nella lotta contro il nemico.

1) Prima della tentazione. – La migliore strategia per prevenire le tentazioni fu suggerita dal Signore stesso ai discepoli nel Getsemani: “Vegliate e pregate per non cadere in tentazione” (Mt 26,41): Vigilanza e preghiera.

a) La vigilanza. – Il demonio non rinuncia mai al possesso della nostra anima. Se a volte sembra che ci lascia in pace, è soltanto per ritornare all’assalto nel momento in cui meno ce lo aspettiamo. E’ necessario stare all’erta per non lasciarsi sorprendere.

Questa vigilanza ci deve riportare alla fugga di tutte le occasioni più o meno pericolose; al controllo di noi stessi, particolarmente della vista e della immaginazione; all’esame preventivo; alla frequente rinnovazione del proposito di non peccare mai, alla lotta contro l’ozio, ecc.

 

b) L’orazione. – La vigilanza da sola non basta. Il controllo più attento e gli sforzi più generosi risulterebbero vani se non ci soccorresse l’aiuto divino. La vittoria sulla tentazione richiede una grazia efficace e solo la preghiera può ottenercela. S. Alfonso de’ Liguori, trattando della necessità della grazia efficace affermava che essa si può conseguire soltanto con l’orazione e ripeteva: “Chi prega si salva e chi non prega si danna”. Quando si trovava di fronte ad un’anima in dubbio se aveva ceduto alla tentazione, solleva domandarle semplicemente: “Avete fatto orazione chiedendo a Dio la grazia di non cadere?”. Ci si rende conto, allora, perché il Signore nel Padre nostro ci abbia esortato a chiedere a Dio di “non indurci in tentazione”.

In questa orazione preventiva è opportuno invocare anche l’aiuto di Maria, che mai conobbe il peccato, e del nostro Angelo custode, che ha la missione di difenderci contro gli assalti del demonio.

 

2) Durante la tentazione. – La nostra condotta durante la tentazione si può riassumere in una sola parola: resistere. Non basta mantenere un atteggiamento puramente passivo, ma è necessaria una azione positiva, che può essere diretta o indiretta.

 

a) La resistenza diretta ci porta ad affrontare la stessa tentazione e a superarla facendo il contrario di quanto ci suggerisce. Per esempio: ci fa parlare bene di una persona quando avremmo una gran voglia di criticarla; ci spinge a fare un’abbondante elemosina quando l’avarizia cerca di serrarci la mano; ci induce a prolungare l’orazione quando il nemico suggerisce di abbreviarla o di ometterla; ci dà il coraggio di manifestare in pubblico la nsotra fede quando il rispetto umano vorrebbe renderci succubi, ecc. Questa resistenza diretta è sempre consigliabile, a meno che non si tratta di tentazioni contro la fede o la purezza.

b) La resistenza indiretta, più che ad affrontarla, ci induce a fuggire la tentazione, rivolgendo la nostra attenzione altrove. La si consiglia di preferenza nelle prove contro la fede e la castità nelle quali non è indicata la lotta diretta, dato il carattere pericoloso e sdrucciolevole della materia. In questi casi è meglio impegnare con serenità e calma le facoltà interne, soprattutto la memoria e l’immaginazione, con altri pensieri, richiamando alla mente l’elenco delle provincie d’Italia, il titolo dei libri che abbiamo letto su un determinato argomento, i quindici migliori monumenti di nostra conoscenza, ecc. Sono tutti accorgimento che danno risultati positivi ed eccellenti, soprattutto se si adottano fin dal primo apparire della tentazione.

 

A volte la tentazione perdura, nonostante i nostri sforzi, e il demonio ritorna alla carica con una instancabile tenacia. Non ci si deve scoraggiare. Questa insistenza costituisce la migliore prova che l’anima non ha ceduto. Insista nel suo diniego una e mille volte se è necessario, con grande serenità e pace, evitando il nervosismo e il turbamento. Ogni assalto ricacciato costituisce un nuovo merito davanti a Dio e un nuovo irrobustimento per l’anima. E il demonio finirà con il lasciarci in pace, soprattutto se non riesce neppure a turbare la pace del nostro spirito che era forse l’unico obiettivo dei suoi reiterati assalti.

Conviene sempre, specialmente quando abbiamo a che fare con tentazioni prolungate, manifestare quello che passa nella nostra anima al direttore spirituale. Il Signore suole compensare con nuovi vigorosi aiuti tale atto di umiltà e semplicità, dal quale il demonio cerca di ritirarci. Dobbiamo avere il coraggio di manifestare ogni cosa senza circonlocuzioni, soprattutto quando ci sentiamo fortemente inclinati a tacere. Non dimentichiamo quello che insegnano i maestri della vita spirituale: una tentazione manifestata, è già per metà superata.

 

3) Dopo la tentazione. – Ci troviamo in uno di questi tre casi: o abbiamo vinto; o siamo stati vinti; o siamo nel dubbio.

a) Se abbiamo vinto non dimentichiamo che la vittoria è unicamente opera della grazia. Dobbiamo ringraziare il Signore con un atto semplice e breve, accompagnando il nostro ringraziamento con una nuova richiesta di aiuto per altre occasioni del genere. Potremmo compendiare il nostro atto in questa o in una equivalente invocazione: “Grazie o Signore; devo tutto a voi; continuate ad aiutarmi in tutte le occasioni pericolose e abbiate pietà di me”.

b) Se siamo caduti non dobbiamo scoraggiarci. Ricordando l’infinita misericordia di Dio, gettiamoci come il figliuol prodigo tra le sue braccia paterne, chiediamogli sinceramente perdono e promettiamo con il suo aiuto di non offenderlo mai più. Se la caduta è stata grave, non possiamo limitarci a un semplice atto di contrizione; accorriamo quanto prima al tribunale della penitenza e approfittiamo della nostra caduta per raddoppiare la vigilanza e intensificare il fervore.

c) Se siamo nel dubbio di avere o meno acconsentito, non tormentiamoci con un esame minuzioso ed estenuante, perché un’imprudenza così grande provocherebbe un’altra volta la tentazione e aumenterebbe il pericolo. Lasciamo passare un certo tempo, e quando sarà tornata la calma, la coscienza ci dirà con sufficiente chiarezza se siamo caduti oppure no. In ogni caso conviene fare un atto di contrizione perfetta e manifestare al confessore, al momento opportuno, quello che ci è capitato, così come l’ha avvertito la nostra coscienza.

 

 

 

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Appendice I

Come fare l’esame generale di coscienza?

 

Prendere il testo da P. Lattanzio?

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Appendice II

 

Altri esercitazioni utili per allontanarsi dal peccato.

 

Meditazione dei peccati propri (Sant’Ignazio di Loyola, EE nn 55-60).

 

 

[55] MEDITAZIONE SUI PECCATI.

Il secondo preludio consiste nel domandare quello che voglio: qui sarà chiedere un profondo e intenso dolore e lacrime per i miei peccati.

[56] Primo punto. Il primo punto consiste nel passare in rassegna i miei peccati: devo cioè richiamare alla memoria tutti i peccati della mia vita, esaminando anno per anno o periodo per periodo. A questo proposito sono utili tre considerazioni: rivedere il luogo e la casa dove ho abitato, le relazioni che ho avuto con altri, le attività che ho svolto.

[57] Secondo punto. Valuto i miei peccati, considerando la bruttura e la malizia che ogni peccato mortale com messo ha per sua natura, anche se non si trattasse di cosa proibita.

[58] Terzo punto. Considero chi sono io, ridimensionando me stesso mediante confronti.

Primo: che cosa sono io rispetto a tutti gli uomini;

secondo: che cosa sono gli uomini rispetto a tutti gli angeli e i santi del paradiso;

terzo: considero che cos'è tutto l'universo rispetto a Dio; allora, io da solo che cosa posso essere?;

quarto: considero tutta la corruzione e la bruttura della mia persona;

quinto: mi considero come una piaga e un ascesso, da cui sono usciti tanti peccati, tante cattiverie e così nauseante veleno.

[59] Quarto punto. Considero chi è Dio contro il quale ho peccato, confrontando i suoi attributi con i rispettivi contrari che sono in me: la sua sapienza con la mia ignoranza, la sua onnipotenza con la mia fragilità, la sua giustizia con la mia iniquità, la sua bontà con la mia cattiveria.

[60] Quinto punto. Un grido di stupore con profonda commozione, considerando che tutte le creature mi hanno lasciato in vita e conservato in essa: gli angeli, che sono la spada della giustizia divina, mi hanno sopportato e custodito e hanno pregato per me; i santi hanno continuato a intercedere e a pregare per me; e il cielo, il sole, la luna, le stelle e gli elementi, i frutti, gli uccelli, i pesci e gli altri animali... ; e la terra non si è aperta per inghiottirmi, creando nuovi inferni per essere tormentato in essi in eterno.

[61] Colloquio. Alla fine farò un colloquio riflettendo sulla misericordia divina, ringraziando Dio nostro Signore che mi ha conservato in vita fino ad ora, e facendo il proposito di emendarmi con la sua grazia per l'avvenire. Terminerò dicendo un Padre nostro

 

[1] C. Buela, Giovani nel Terzo Millenio, EDIVI.

[2] SPIEGARE che se la persona è convinta che una cosa sia proibita, anche se in realtà non lo è, accettandola in quanto “proibita”, cade nel peccato.

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